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Mario Monicelli è il vero cronista dell’Italia del dopoguerra

Mario Monicelli è il vero cronista dell’Italia del dopoguerra

Nella costellazione dei grandi autori del cinema italiano, Mario Alberto Ettore Monicelli (Roma, 16 maggio 1915 – Roma, 29 novembre 2010) occupa una posizione singolare: quella di un osservatore lucido e implacabile che ha saputo trasformare la commedia in uno strumento di indagine sociale e di riflessione esistenziale. La sua opera, che attraversa oltre sessant’anni di storia italiana, si configura come un’esplorazione profonda dell’identità nazionale, una cartografia dell’anima collettiva che, attraverso la lente dell’ironia e del grottesco, rivela le contraddizioni, le miserie e la resilienza di un popolo.

La poetica del disincanto…

Il cinema di Monicelli si distingue per una poetica del disincanto che rifugge tanto dalla retorica quanto dalla disperazione. La sua è una visione tragica dell’esistenza umana che, paradossalmente, trova nella commedia la sua espressione più autentica. Come ha osservato egli stesso: “La commedia nasce dalla tragedia, dal dolore, dalla miseria, dalla fame, dalla disperazione.” In questo apparente ossimoro risiede l’originalità del suo sguardo: la capacità di trasfigurare il dolore in risata, senza mai banalizzarlo o dissolverlo.

Il suo cinema rappresenta l’antitesi dell’ottimismo retorico e della consolazione facile. La commedia di Monicelli non è mai evasione, ma confronto diretto con la realtà nelle sue manifestazioni più crude. Nei suoi film, l’ironia diventa uno strumento di conoscenza, un modo per penetrare le maschere sociali e rivelare la verità nascosta dietro le apparenze.

….E il ritratto dell’Italia post-bellica

Nei capolavori degli anni ’50 e ’60, come “I soliti ignoti” (1958) e “La grande guerra” (1959), Monicelli offre un ritratto impietoso ma profondamente umano dell’Italia post-bellica, un paese lacerato tra le speranze di rinascita e il peso di una storia tormentata. In queste opere, l’Italia emerge come un paese di sopravvissuti, dove l’arte di arrangiarsi diventa una forma di resistenza esistenziale.

“I soliti ignoti” rappresenta l’epopea tragicomica di un gruppo di ladri improvvisati, figure marginali che incarnano la condizione di precarietà e di fallimento di una nazione in bilico tra la miseria del dopoguerra e le illusioni del boom economico. La comicità del film nasce proprio dalla discrepanza tra le aspirazioni dei personaggi e la loro inadeguatezza, tra i sogni di facile ricchezza e la realtà di una povertà che sembra ineluttabile.

In “La grande guerra”, l’ironia si fa ancora più amara nel rappresentare il volto disumano del conflitto attraverso le vicende di due soldati-antieroi. Il film costituisce una demistificazione radicale della retorica patriottica, mostrando la guerra non come palcoscenico dell’eroismo, ma come teatro dell’assurdo dove la sopravvivenza diventa l’unica forma possibile di resistenza.

La critica sociale attraverso l’affresco corale

Il cinema di Monicelli si configura spesso come un grande affresco corale, dove la molteplicità dei personaggi riflette la complessità del tessuto sociale italiano. In opere come “L’armata Brancaleone” (1966) e “Amici miei” (1975), la dimensione collettiva diventa il terreno su cui si innestano le sue riflessioni sull’identità nazionale.

Una delle scene più iconiche di “Amici miei”

“L’armata Brancaleone” rappresenta, attraverso la parodia del cinema cavalleresco, una metafora dell’Italia come paese eternamente in bilico tra aspirazioni grandiose e una realtà di disorganizzazione e improvvisazione. Il medioevo grottesco del film diventa uno specchio deformante in cui si riflette l’immagine di un paese che fatica a trovare una direzione coerente.

In “Amici miei”, la dimensione collettiva si restringe al microcosmo di un gruppo di amici che trovano nella “zingarata” – lo scherzo dissacrante e irriverente – una forma di resistenza contro l’invecchiamento e la morte. La commedia si tinge qui di sfumature ancora più cupe, trasformandosi in una riflessione sul fallimento esistenziale e sulla disperata ricerca di senso in una società che ha perso i suoi riferimenti.

Monicelli diresse Totò in numerose occasioni. Qui, in “Guardie e ladri”

Il valore artistico: tra linguaggio e sperimentazione

L’originalità artistica di Monicelli non risiede solo nei temi trattati, ma anche nella sua capacità di reinventare continuamente il linguaggio cinematografico della commedia. La sua opera rappresenta una sintesi straordinaria tra tradizione e innovazione, tra l’eredità della commedia popolare italiana e le influenze del neorealismo e del cinema d’autore europeo.

Il suo stile visivo, caratterizzato da un uso sapiente della profondità di campo e da una particolare attenzione ai dettagli dell’ambiente, trasforma ogni inquadratura in un microcosmo narrativo. La sua regia, apparentemente semplice ma in realtà estremamente sofisticata, riesce a bilanciare perfettamente il ritmo comico con la densità tematica, creando un equilibrio raramente raggiunto nel cinema di genere.

Particolarmente significativo è il suo lavoro con gli attori, da Alberto Sordi a Vittorio Gassman, da Marcello Mastroianni a Totò. Monicelli ha saputo valorizzare le loro qualità comiche, guidandoli però verso una recitazione che trascende il puro effetto per diventare strumento di caratterizzazione psicologica e sociale. Sotto la sua direzione, le maschere della commedia si trasformano in personaggi complessi, portatori di una verità umana che va oltre il singolo contesto narrativo.

L’evoluzione dell’opera e il confronto con la modernità

Con il passare dei decenni, il cinema di Monicelli evolve, adattandosi ai cambiamenti della società italiana senza mai perdere la sua cifra distintiva. In film come “Un borghese piccolo piccolo” (1977) e “Speriamo che sia femmina” (1986), il suo sguardo si fa ancora più cupo nel registrare la crisi dei valori tradizionali e l’emergere di nuove forme di alienazione.

Frame tratto da “Un borghese piccolo piccolo”

“Un borghese piccolo piccolo” segna forse il punto più estremo di questa parabola, con una narrazione che inizia come commedia per trasformarsi gradualmente in un dramma angoscioso sulla spirale della vendetta. Il film rappresenta una critica feroce della piccola borghesia italiana, della sua grettezza morale e della sua vulnerabilità di fronte alla violenza sociale degli anni di piombo.

In “Speriamo che sia femmina”, invece, Monicelli esplora la crisi della famiglia patriarcale, mostrando l’emergere di una nuova consapevolezza femminile in una società ancora profondamente segnata da modelli maschilisti. La commedia diventa qui uno strumento di analisi delle relazioni di genere, anticipando temi che sarebbero diventati centrali nel dibattito culturale contemporaneo.

L’eredità, immensa, di Mario Monicelli nella cultura italiana

L’influenza di Monicelli sulla cultura italiana va ben oltre l’ambito cinematografico. La sua opera ha contribuito in modo decisivo alla costruzione dell’immaginario collettivo nazionale, fornendo archetipi, situazioni e personaggi che sono entrati nel patrimonio comune.

Il suo sguardo disincantato ma mai cinico ha educato generazioni di italiani a una forma particolare di auto-consapevolezza critica, a una capacità di riconoscere i propri difetti collettivi senza autocommiserazione né autocompiacimento. In questo senso, il cinema di Monicelli ha svolto una funzione pedagogica fondamentale, insegnando a guardare la realtà al di là delle rappresentazioni ideologiche e delle mistificazioni retoriche.

La sua eredità si manifesta oggi non solo nel cinema contemporaneo – dove registi come Matteo Garrone, Paolo Sorrentino e Nanni Moretti mostrano, pur nelle loro differenze, l’influenza della sua lezione – ma anche nella letteratura, nel teatro e persino nel giornalismo. La capacità monicelliana di coniugare il riso con la riflessione, di utilizzare l’ironia come strumento di indagine sociale, è diventata parte integrante della sensibilità culturale italiana.

La commedia che permette di conoscere: maestro dell’esplorazione attraverso l’amara risata

In un’epoca in cui il cinema tende sempre più alla polarizzazione tra puro intrattenimento e riflessione intellettuale, l’opera di Monicelli ci ricorda che la commedia può essere uno strumento privilegiato di conoscenza della realtà sociale. Il suo cinema dimostra che ridere non significa necessariamente evadere, ma può anzi rappresentare una forma particolare di lucidità, un modo per confrontarsi con le contraddizioni dell’esistenza senza cedere alla disperazione.

La sua lezione più profonda risiede forse proprio in questa capacità di trasformare il disincanto in energia creativa, di guardare l’assurdità della condizione umana con uno sguardo che non rinuncia né alla pietà né all’intelligenza critica. In un paese come l’Italia, perennemente in bilico tra tragedia e farsa, la commedia di Monicelli ha rappresentato non solo uno specchio, ma anche una forma di catarsi collettiva, un modo per esorcizzare i fantasmi della storia attraverso il riso liberatorio.

Mario Monicelli non è stato solo un maestro del cinema, ma un interprete privilegiato dell’anima italiana, un narratore capace di cogliere, dietro le maschere della commedia, il volto autentico di un popolo con tutte le sue contraddizioni, le sue miserie e la sua insopprimibile vitalità.

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