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I lavoratori nell’arte: un viaggio a 360 gradi – Parte 1 (pittura e scultura)

I lavoratori nell’arte: un viaggio a 360 gradi – Parte 1 (pittura e scultura)

Le mani dei lavoratori hanno plasmato non solo la materia grezza del mondo, ma anche l’anima collettiva dell’umanità. E l’arte, nella sua capacità di rendere visibile l’invisibile, ha raccolto queste storie, le ha preservate, le ha elevate a testimonianza della dignità umana che risiede nell’atto stesso del fare. Mentre celebriamo il Primo Maggio, giornata dedicata al valore sacro del lavoro, intraprendiamo un viaggio attraverso i secoli per scoprire come pittori, scultori, musicisti e registi abbiano interpretato e onorato la figura del lavoratore – quell’eroe silenzioso che sostiene, con le proprie braccia e il proprio ingegno, l’impalcatura della civiltà. Qui, la prima parte, dedicata alle forme classiche d’arte e i lavoratori.

L’epopea della fatica: il lavoro nella pittura classica

Jean-François Millet, con le sue tele che sembrano respirare l’odore della terra umida e fertile, ci offre forse la più commovente rappresentazione della dignità del lavoro contadino. “L’Angelus” (1857-1859) cattura quell’istante sospeso in cui due contadini interrompono il loro lavoro nel campo per recitare la preghiera serale.

I loro corpi, curvati dalla fatica di una giornata trascorsa a strappare il nutrimento da una terra non sempre generosa, formano una composizione di straordinaria potenza emotiva. Il loro non è un semplice gesto di devozione, ma un atto che unisce la dimensione del sacro a quella del quotidiano, conferendo alla fatica del lavoro una dignità quasi mistica. C’è una luce dorata che avvolge i due protagonisti, una luce che non proviene solo dal sole al tramonto, ma sembra emanare dalle loro figure stesse, come se il lavoro della terra consacrasse chi lo compie. Attraverso questa rappresentazione, Millet ci racconta di una forma di spiritualità radicata nel lavoro, di una comunione con la terra che trascende la mera necessità economica per diventare elemento identitario profondo.

Gustave Courbet, con il suo sguardo privo di compromessi e il suo realismo radicale, ci mostra invece la cruda materialità del lavoro in opere come “Gli Spaccapietre” (1849). L’opera, purtroppo distrutta durante i bombardamenti di Dresda nella Seconda Guerra Mondiale, vive oggi solo attraverso riproduzioni e descrizioni.

Rappresentava due figure, un uomo anziano e uno giovane, colti nell’atto di spaccare pietre ai margini di una strada. Courbet non idealizza il loro lavoro, non lo ammanta di significati spirituali, ma ne cattura la durezza essenziale, la ripetitività alienante, la fatica che consuma i corpi. Gli abiti logori, le posture scomode, i muscoli tesi nell’atto di sollevare e abbattere il martello sulla pietra: tutto parla di una condizione umana segnata dalla necessità. Eppure, proprio nell’assenza di idealizzazione risiede la forza dell’opera – una forza che deriva dall’onestà brutale con cui l’artista guarda al lavoro come elemento definente dell’esistenza umana, come condizione ineludibile di appartenenza alla classe lavoratrice.

Le rappresentazioni del lavoro nell’arte europea tra Otto e Novecento raccontano anche la trasformazione profonda indotta dalla rivoluzione industriale. La pittura di Constantin Meunier in Belgio o quella di Teofilo Patini in Italia documenta il passaggio da un mondo dominato dal lavoro agricolo a quello delle fabbriche, delle miniere, delle grandi industrie. Nei dipinti di Patini, come “Vanga e latte” (1883) o “L’erede” (1880), il lavoro dei campi conserva ancora una dimensione di ciclicità naturale, nonostante la durezza delle condizioni di vita. Ma è un mondo al tramonto, destinato a essere soppiantato dalle logiche spietate dell’industrializzazione. È un passaggio che comporta non solo la trasformazione del paesaggio e delle modalità produttive, ma un mutamento profondo nella percezione stessa del lavoro e della sua collocazione all’interno dell’esistenza umana.

La scultura monumentale: esaltazione e commemorazione del lavoro

Se la pittura può catturare un istante di lavoro, fermandolo sulla tela per l’eternità, la scultura, con la sua tridimensionalità, riesce a cogliere la fisicità del lavoro, il volume e il peso dei corpi impegnati nello sforzo produttivo. Le sculture monumentali dedicate ai lavoratori, che sorgono in molte città del mondo, non sono semplici decorazioni urbane, ma veri e propri luoghi della memoria collettiva, punti di ancoraggio per l’identità di una comunità.

A New York, il “Rockefeller Center” ospita l’imponente bassorilievo di Lee Lawrie, “Atlas” (1937), che mostra il titano condannato a sostenere il peso del mondo sulle proprie spalle. È un’immagine potente del lavoro come responsabilità cosmica, come destino ineludibile. Non troppo distante, la scultura “American Progress” di Paul Manship celebra il lavoro come forza motrice del progresso nazionale, associando in modo indissolubile la mitologia del lavoro con quella dell’identità americana. Queste sculture non sono semplici decorazioni di prestigiosi edifici commerciali, ma narrano una storia, raccontano di come una società veda se stessa e il proprio rapporto con il lavoro.

In Europa, la tradizione dei monumenti ai lavoratori si intreccia profondamente con le vicende politiche e sociali. In Italia, i monumenti ai caduti sul lavoro commemorano non solo le vittime di specifiche tragedie – come il “Monumento ai caduti di Marcinelle” a Manoppello, che ricorda i minatori italiani morti nella catastrofe del 1956 – ma anche, più in generale, tutti coloro che hanno perso la vita nel quotidiano esercizio del proprio mestiere. Sono sculture che parlano di dolore e di ingiustizia, ma anche di dignità e di memoria. I volti scolpiti nella pietra o fusi nel bronzo raccontano la storia di un’umanità che ha trovato nel lavoro non solo il proprio sostentamento, ma anche il proprio modo di essere nel mondo.

Particolarmente significativa è la tradizione della scultura monumentale nei paesi che hanno vissuto l’esperienza del socialismo reale. Il realismo socialista ha prodotto imponenti rappresentazioni del lavoro e dei lavoratori, esaltandone la centralità nella costruzione di una nuova società. Da “L’Operaio e la Kolchoziana” di Vera Mukhina, che domina ancora oggi il paesaggio moscovita, alle numerose statue di minatori, operai e contadini che popolavano le piazze dell’Europa orientale, queste opere raccontano di un’epoca in cui il lavoro era elevato a principio ordinatore della società, a fondamento stesso dell’identità collettiva. Sono sculture che, al di là del loro valore propagandistico, testimoniano un momento storico in cui il lavoro e il lavoratore assumevano una centralità ideologica senza precedenti.

L’Operaio e la Kolchoziana

L’arte contemporanea e la destrutturazione del concetto di lavoro

L’arte contemporanea ha affrontato il tema del lavoro con strumenti e prospettive radicalmente nuovi. L’avvento dell’automazione, la digitalizzazione, la precarizzazione, la “gig economy”, hanno trasformato profondamente il mondo del lavoro, rendendo necessarie nuove modalità di rappresentazione e di interrogazione artistica. Artisti come Santiago Sierra, che paga persone in condizioni di bisogno per compiere azioni ripetitive o degradanti all’interno delle sue performance, o Mierle Laderman Ukeles, che ha dedicato gran parte della sua carriera a rendere visibile e dignificare il lavoro di manutenzione e di cura, spesso invisibile e sottovalutato, ci mostrano come l’arte contemporanea abbia saputo rinnovare radicalmente lo sguardo sul lavoro.

Particolarmente significativa è l’opera di Ai Weiwei, che attraverso installazioni, fotografie, video e performance, indaga le condizioni di sfruttamento dei lavoratori nella Cina contemporanea. Le sue opere non sono semplici denunce, ma complesse riflessioni sul significato del lavoro in un’epoca di globalizzazione selvaggia, di migrazioni forzate, di crescente disuguaglianza. In “Sunflower Seeds” (2010), una delle sue installazioni più celebri, Ai Weiwei ha ricoperto il pavimento della Turbine Hall della Tate Modern di Londra con milioni di semi di girasole in porcellana, ciascuno realizzato e dipinto a mano da artigiani della città di Jingdezhen. L’opera è una potente metafora della condizione degli individui nella società di massa, ma è anche una riflessione sulla tradizione artigianale cinese e sulla sua trasformazione nell’era della produzione industriale globalizzata.

Sunflower Seeds (2010)

La videoarte ha offerto nuove possibilità di rappresentazione del lavoro. Opere come “Workers Leaving the Factory” (1995) di Harun Farocki, che rielabora la celebre sequenza dei fratelli Lumière mostrando come i lavoratori escano dalle fabbriche in contesti storici e geografici diversi, o “Where is the Capital of Borderless Capitalism?” (2023) di Danae Stratou, che esplora gli effetti della finanziarizzazione dell’economia globale sulla vita e sul lavoro delle persone comuni, testimoniano la capacità dell’arte contemporanea di offrire letture complesse e stratificate del lavoro nell’epoca del tardo capitalismo.

Anche la fotografia contemporanea continua a indagare il mondo del lavoro. Sebastião Salgado, con le sue immagini potenti e spesso disturbanti dei lavoratori nelle miniere, nelle industrie, nei cantieri di tutto il mondo, ci mostra la persistenza di condizioni di lavoro estremamente dure e pericolose, anche in un’epoca in cui il progresso tecnologico avrebbe potuto alleviarle. Le sue fotografie non sono semplici documenti, ma opere d’arte che ci interrogano sul significato profondo del lavoro e sulla nostra responsabilità collettiva nei confronti di chi lavora in condizioni disumane.

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