Il canto della fatica: lavoro e I lavoratori nell’arte: un viaggio a 360 gradi – Parte 2 (musica e cinema)
La storia della musica popolare è intrisa di canti di lavoro. Dalle “worksongs” dei campi di cotone americani ai canti dei battipali veneziani, dalle nenie delle mondine nelle risaie padane ai canti di protesta delle grandi lotte operaie, la musica ha accompagnato il lavoro, scandendone i ritmi, alleviandone la monotonia, esprimendone le sofferenze e le rivendicazioni. Questi canti non sono solo folklore, ma narrazione viva, testimonianza diretta di esperienze di lavoro e di vita.
Le “worksongs” afroamericane, nate nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti, rappresentano un esempio emblematico di come la musica possa nascere dal lavoro e, al contempo, umanizzarlo. Questi canti, con il loro ritmo ripetitivo che accompagnava i movimenti del corpo, con le loro melodie che si intrecciavano in complesse strutture di “call and response”, non erano semplici distrazioni dalla fatica, ma strumenti di resistenza culturale, modi per preservare l’umanità in condizioni di estrema disumanizzazione. Dal loro humus fertile sono germogliate le forme musicali che hanno rivoluzionato il linguaggio sonoro del Novecento: il blues, il jazz, il rhythm and blues, il rock and roll. Ciò che iniziò come canto di lavoro di schiavi nei campi di cotone si è trasformato, attraverso un processo di continua reinvenzione, in una delle più potenti espressioni artistiche del nostro tempo.
Nelle tradizioni musicali italiane, i canti delle mondine occupano un posto di rilievo. Le risaie della pianura padana hanno visto generazioni di donne lavorare in condizioni estremamente dure, con i piedi immersi nell’acqua e il corpo piegato per ore sotto il sole cocente. I loro canti, come “Bella Ciao” nella sua versione originale mondina (ben diversa da quella partigiana che sarebbe nata durante la Resistenza), o “Se otto ore vi sembran poche”, non erano solo un modo per alleviare la fatica, ma anche uno strumento di protesta, di coesione sociale, di costruzione di un’identità collettiva femminile. Attraverso il canto, queste donne affermavano la propria esistenza, la propria dignità, la propria capacità di resistere alle durezze del lavoro e alle ingiustizie sociali.
Nel panorama contemporaneo, la tradizione dei canti di lavoro è stata raccolta e rinnovata da artisti come Bruce Springsteen, il cui album “Nebraska” (1982) è un affresco scabro e commovente dell’America della classe operaia. O come Fabrizio De André, che in “Creuza de mä” (1984) rende omaggio alla cultura e alla fatica dei lavoratori portuali genovesi. O ancora come i Gang, che nel loro “Storie d’Italia” (1993) raccontano le vicende, spesso tragiche, del lavoro e delle lotte operaie nel nostro paese. Sono artisti che hanno saputo raccogliere l’eredità dei canti di lavoro tradizionali, trasformandola in una forma espressiva contemporanea che non smette di interrogarci sul significato profondo del lavoro e sulla condizione di chi vive del proprio lavoro in un mondo sempre più complesso e spesso ingiusto.
Le immagini in movimento: il cinema e il lavoro
Il cinema, con la sua capacità di catturare il movimento e di raccontare storie complesse, ha offerto rappresentazioni indimenticabili del mondo del lavoro. Da “Tempi Moderni” di Charlie Chaplin (1936), con la sua critica feroce dell’alienazione indotta dal lavoro alla catena di montaggio, a “Le mani sulla città” di Francesco Rosi (1963), che esplora le connessioni perverse tra mondo del lavoro, politica e criminalità, il cinema ha saputo illuminare aspetti del lavoro che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra.
La tradizione del cinema neorealista italiano, con opere come “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica (1948) o “La terra trema” di Luchino Visconti (1948), ha posto al centro della narrazione la quotidiana lotta per la sopravvivenza di persone comuni, per le quali il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento, ma anche un elemento fondante dell’identità e della dignità personale. In “Ladri di biciclette”, il furto della bicicletta di Antonio Ricci non è solo un evento drammatico, ma la metafora di un sistema sociale che priva i più deboli persino degli strumenti necessari per guadagnarsi da vivere onestamente. In “La terra trema”, la rivolta dei pescatori siciliani contro il sistema di sfruttamento imposto dai grossisti è destinata al fallimento, ma nel suo tragico epilogo c’è la testimonianza di una dignità che non si piega, di una umanità che resiste anche nella sconfitta.
Ken Loach, con il suo cinema impegnato e sociale, ha fatto del mondo del lavoro il fulcro della propria opera. Film come “Riff-Raff” (1991), “Bread and Roses” (2000) o il più recente “Sorry We Missed You” (2019) raccontano storie di lavoratori precari, di immigrati, di persone che lottano quotidianamente non solo per la sopravvivenza economica, ma anche per la propria dignità. Il suo è un cinema che non si limita a denunciare le ingiustizie, ma che cerca di restituire umanità e visibilità a coloro che sono spesso invisibili o ridotti a mere statistiche nel dibattito pubblico.
Anche il cinema contemporaneo non ha smesso di interrogarsi sul significato del lavoro e sulla condizione dei lavoratori. Film come “Nomadland” di Chloé Zhao (2020), che racconta la vita di persone anziane costrette a un nomadismo lavorativo dopo la crisi economica del 2008, o “Un altro giro” di Thomas Vinterberg (2020), che esplora la crisi esistenziale di un insegnante ormai distaccato dal senso profondo del proprio lavoro, o ancora “Minari” di Lee Isaac Chung (2020), che narra le difficoltà di una famiglia di immigrati coreani che cerca di costruirsi una vita coltivando la terra in Arkansas, testimoniano la centralità del tema del lavoro nella riflessione cinematografica contemporanea.
II lavoro, tra celebrazione e critica
Mentre celebriamo il Primo Maggio, è importante ricordare che l’arte non si è limitata a rappresentare il lavoro, ma ha contribuito attivamente alla costruzione di un immaginario collettivo sul lavoro e sui lavoratori. Un immaginario complesso, stratificato, spesso contraddittorio, che oscilla tra celebrazione e critica, tra esaltazione epica e denuncia delle condizioni di sfruttamento.
La rappresentazione del lavoro nell’arte è sempre stata anche una riflessione sul significato stesso dell’essere umano, sulla sua capacità di trasformare il mondo e di trasformarsi attraverso il proprio fare. Dal lavoro come punizione divina per il peccato originale, al lavoro come mezzo di elevazione spirituale, dal lavoro come strumento di emancipazione collettiva al lavoro come fonte di alienazione individuale, l’arte ha esplorato tutte le sfaccettature di questa attività fondamentale dell’esistenza umana.
In un’epoca in cui l’automazione e l’intelligenza artificiale stanno trasformando radicalmente il mondo del lavoro, in cui la precarizzazione e la destrutturazione dei percorsi professionali tradizionali generano nuove forme di incertezza e di ansia, l’arte continua a offrirci strumenti per interrogarci sul significato profondo del lavoro e sulla sua collocazione all’interno dell’esistenza umana. E in questo interrogarsi continuo, in questo dialogo incessante tra arte e lavoro, possiamo forse trovare nuove chiavi per comprendere e affrontare le sfide che ci attendono.
Il lavoro, così come è stato rappresentato nell’arte attraverso i secoli, è molto più di una semplice attività economica: è il luogo in cui gli esseri umani esprimono la propria creatività, costruiscono la propria identità, tessono relazioni sociali, danno forma al mondo. È il punto di intersezione tra la dimensione individuale e quella collettiva dell’esistenza, tra la necessità e la libertà, tra il peso del dovere e la gioia del creare. Ed è forse proprio in questa complessità che risiede il suo fascino inestinguibile per gli artisti di ogni epoca.
Nella sua capacità di elevare il quotidiano a epopea, di trovare bellezza nella fatica, di dare voce a coloro che spesso non ne hanno, l’arte che racconta il lavoro ci ricorda che dietro ogni oggetto, ogni servizio, ogni comodità della vita contemporanea, ci sono persone reali, con le loro storie, i loro sogni, le loro lotte. Ci ricorda che il lavoro non è solo produzione, ma anche relazione, identità, cultura. Ci invita a guardare con occhi nuovi quel tessuto invisibile di attività umana che sostiene l’intero edificio della nostra civiltà.
E forse, nell’epoca della virtualizzazione e della smaterializzazione, questa è la lezione più preziosa che l’arte sul lavoro può offrirci: un invito a riscoprire la concretezza del fare, la materialità delle cose, la fatica e la gioia che derivano dal trasformare il mondo con le proprie mani, il proprio ingegno, la propria creatività. Un invito a riconoscere, oggi più che mai, la dignità e il valore di ogni forma di lavoro umano.
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