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5 curiosità che non conoscevi su Marina Abramović

5 curiosità che non conoscevi su Marina Abramović

Immaginate di essere a pochi centimetri da Marina Abramović, con i suoi occhi che vi guardano dritto nell’anima per ore, senza mai distogliere lo sguardo. È successo davvero, al MoMA di New York nel 2010, dove migliaia di persone hanno fatto la coda per sedere di fronte alla “nonna della performance art” e vivere un’esperienza che ha cambiato per sempre il loro rapporto con l’arte. Ma chi è davvero questa donna che ha fatto del proprio corpo un’opera vivente?

Marina Abramović è nata a Belgrado il 30 novembre 1946, ma dietro la figura pubblica dell’artista che ha rivoluzionato il concetto di performance si nascondono storie sorprendenti che raccontano di una donna complessa, coraggiosa e spesso incompresa. Scopriamo insieme cinque curiosità che forse non conoscevate su una delle artiste più influenti del nostro tempo.

Figlia di eroi di guerra che divenne ribelle dell’arte

Marina è nata da due eroi della Seconda Guerra Mondiale: la madre lavorò come direttrice del Museo della Rivoluzione e Arte, mentre il padre, eroe nazionale, la iniziò allo studio dell’arte. Ma c’è un dettaglio ancora più straordinario nella sua genealogia: nella sua famiglia, Marina vanta anche un patriarca della chiesa ortodossa, che fu successivamente proclamato santo.

Crescere in una famiglia di eroi di guerra e santi ortodossi avrebbe potuto destinarla a una vita di conformismo e rispettabilità. Invece, Marina scelse di ribellarsi proprio attraverso l’arte più estrema e controversa, trasformando il corpo in un campo di battaglia dove esplorare i limiti della resistenza umana. È come se avesse ereditato il coraggio dei genitori partigiani, ma lo avesse canalizzato in una forma di resistenza completamente diversa: quella contro le convenzioni artistiche e sociali del suo tempo.

La sua formazione artistica iniziò in modo tradizionale: dal 1965 al 1970 ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Belgrado e le sue opere sono diventate sempre più astratte. Ma fu a Zagabria dove ha iniziato a servirsi del corpo come strumento artistico, dando vita a quella rivoluzione personale che l’avrebbe resa famosa in tutto il mondo.

Il corpo come tela: quando l’arte diventa esperienza limite

La performance più famosa e scioccante di Marina rimane “Rhythm 0“, realizzata nel 1974 a Napoli. Su un tavolo erano disposti accuratamente 72 differenti oggetti, c’erano scarpe, piume, bottiglie, catene, lamette, persino una pistola con un proiettile. Una giovane donna in piedi di fronte al pubblico, immobile e totalmente passiva. Per sei ore ciascuno dei presenti attraverso quegli oggetti poteva interagire con l’artista.

Quello che accadde in quelle sei ore è diventato leggenda: il pubblico iniziò con timidezza, poi escalò verso comportamenti sempre più aggressivi. Alcuni spettatori la spogliarono, altri le tagliarono i vestiti con le lamette, qualcuno puntò addirittura la pistola carica contro la sua testa. Solo l’intervento di altri presenti impedì che la situazione degenerasse completamente.

Questa performance rivela una verità inquietante sulla natura umana: quando le persone si sentono autorizzate a trattare un altro essere umano come un oggetto, possono arrivare a estremi impensabili. Marina trasformò il proprio corpo in uno specchio che rifletteva l’anima più oscura del pubblico, pagando un prezzo personale altissimo per questa rivelazione.

L’amore che divenne arte: la storia con Ulay

Marina Abramovic ricorda l’intenso rapporto con Ulay come “gli anni più felici della mia vita”. Per dodici anni, dal 1976 al 1988, Marina e l’artista tedesco Frank Uwe Laysiepen, conosciuto come Ulay, furono partners nella vita e nell’arte, creando alcune delle performance più memorabili della storia contemporanea.

La loro relazione era un’opera d’arte totale: vivevano in un furgone, viaggiando per l’Europa e creando performance che esploravano i temi dell’identità, del genere e della relazione amorosa. In “Rest Energy” (1980), Marina teneva un arco mentre Ulay tirava la corda con una freccia puntata verso il cuore di lei. Il loro battito cardiaco accelerato veniva amplificato nella stanza, creando una tensione palpabile tra amore e distruzione.

Il loro rapporto terminò con una delle performance più poetiche e dolorose mai concepite: “The Lovers” (1988). I due artisti camminarono per 90 giorni dalle estremità opposte della Grande Muraglia Cinese per incontrarsi al centro e dirsi addio per sempre. Un epilogo che trasformò la fine di un amore in un’opera d’arte immortale.

La “madrina” spirituale dell’arte contemporanea

Quello che molti non sanno è che Marina non si limita a creare arte: la insegna e la tramanda. Marina acquistò una proprietà a Hudson (New York), che divenne residenza privata e punto di incontro per artisti performativi. Questo luogo, il Marina Abramović Institute, è diventato una sorta di monastero laico dove giovani artisti possono imparare i principi della performance art direttamente dalla sua fondatrice.

Il progetto è il risultato del suo lavoro sulle re-performance, pensate per conservare le performance. Marina ha infatti sviluppato un metodo rivoluzionario per tramandare l’arte performativa: invece di limitarsi a documentare le performance, ha creato un sistema per “re-performarle”, permettendo ad altri artisti di rivivere e reinterpretare le sue opere.

Questo approccio rivela una visione profonda dell’arte come esperienza condivisa piuttosto che come oggetto da possedere. Marina ha capito che la performance art rischia di morire con i suoi creatori se non viene trasmessa attraverso il corpo e l’esperienza diretta. In questo senso, è diventata non solo un’artista, ma anche una custode della memoria artistica contemporanea.

L’eredità di una vita trasformata in arte

Marina Abramović, classe 1946, ricopre una posizione di fondamentale importanza nella storia dell’arte contemporanea. La sua idea di arte, unita allo studio antropologico del comportamento umano, si esprime attraverso la cosiddetta performance art, fatta di esperienze sensoriali e psicologiche.

Ma forse il dato più sorprendente è che Marina ha sempre vissuto la sua arte come una ricerca spirituale. Le sue performance non sono mai state solo provocazioni gratuite o esibizionismo: erano esperimenti sulla condizione umana, sulla capacità di resistenza del corpo e dell’anima, sulla possibilità di trascendere i limiti attraverso l’arte.

Seducente e suadente, istrionica e imperiosa, concentrata e coerente, Marina ha trasformato gli elementi della sua lunga e complicata vita in un’esplorazione continua di cosa significhi essere umani nel XXI secolo. Le sue performance sono diventate rituali collettivi, momenti in cui l’arte si fa esperienza condivisa e trasformativa.

Oggi, a quasi ottant’anni, Marina Abramović continua a stupire e a provocare, rimanendo fedele alla sua visione dell’arte come strumento di trasformazione. La sua eredità non sono solo le centinaia di performance realizzate, ma l’aver dimostrato che l’arte può ancora cambiare le persone, una performance alla volta, uno sguardo alla volta.

In un mondo sempre più digitale e disincarnato, Marina ci ricorda che il corpo resta il nostro primo e più potente strumento di comunicazione. E che a volte, per vedere davvero, bisogna avere il coraggio di guardare negli occhi qualcuno per ore, senza distogliere mai lo sguardo. Anche quando fa male. Soprattutto quando fa male.

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