La critica d’arte tra obsolescenza e ridefinizione del ruolo
La retorica sulla “morte della critica” ricorre ciclicamente da decenni. Ma forse il problema non è la sua scomparsa, quanto piuttosto una trasformazione strutturale del suo ruolo che non abbiamo ancora imparato a decifrare.
La questione dello statuto della critica d’arte contemporanea non può essere liquidata con diagnosi semplicistiche di obsolescenza o morte. Richiede invece un’analisi delle trasformazioni sistemiche che hanno riconfigurato le modalità di produzione, circolazione e legittimazione del discorso sull’arte. Ciò che appare come crisi è in realtà una ridistribuzione dei poteri interpretativi all’interno di un ecosistema profondamente mutato.
La funzione storica della critica come dispositivo di potere
Per comprendere la trasformazione in atto, occorre prima riconoscere cosa fosse la critica nel sistema dell’arte novecentesco. Non era semplicemente un’attività interpretativa, ma un dispositivo di legittimazione e costruzione del valore. Il critico occupava una posizione strategica nella catena che trasformava un oggetto in opera d’arte riconosciuta e, conseguentemente, in merce di valore.
Questa funzione si fondava su alcuni presupposti strutturali: l’esistenza di canali di comunicazione limitati e controllati, la concentrazione del capitale culturale in figure autorizzate, la separazione netta tra produttore e pubblico, tra expertise e fruizione comune. La critica esercitava un potere selettivo: decideva cosa meritasse attenzione, cosa entrasse nel discorso pubblico sull’arte, cosa venisse escluso.
Non si trattava necessariamente di un esercizio arbitrario di potere. La critica svolgeva anche una funzione ermeneutica genuina: forniva strumenti interpretativi, collocava le opere in genealogie e contesti, articolava relazioni tra pratica artistica e questioni culturali più ampie. Ma questa funzione era inscindibile dalla sua posizione di gatekeeping all’interno del sistema.
La disintermediazione come processo strutturale
La trasformazione digitale ha operato una disintermediazione radicale di questo sistema. Non si tratta semplicemente dell’emergere di nuovi canali comunicativi, ma della dissoluzione delle condizioni stesse che rendevano possibile il monopolio interpretativo della critica tradizionale. Chiunque oggi può pubblicare considerazioni sull’arte, raggiungere un pubblico, costruire autorevolezza attraverso meccanismi che bypassano completamente le istituzioni critiche tradizionali.
Questa democratizzazione dell’accesso al discorso pubblico è stata celebrata da alcuni come liberazione da oligarchie culturali, denunciata da altri come degrado qualitativo e perdita di rigore. Entrambe le posizioni colgono aspetti reali del fenomeno, ma ne mancano la complessità. La disintermediazione non produce semplicemente più democrazia o più caos: riconfigura le modalità stesse attraverso cui si forma e circola il giudizio critico.
Il problema non è che tutti possano esprimersi sull’arte, ma che i criteri di legittimazione dell’autorevolezza critica si sono moltiplicati e frammentati. Accanto all’autorevolezza accademica tradizionale, emergono forme di credibilità basate su follower, engagement, capacità di produrre contenuti virali, appartenenza a comunità specifiche. Non esiste più un unico campo critico con regole condivise, ma una pluralità di arene discorsive con logiche interne diverse.
La critica tra interpretazione e servizio
In questo contesto frammentato, la critica tradizionale si trova a dover ridefinire la propria funzione. Una parte significativa della produzione critica contemporanea si è spostata verso forme di servizio informativo: recensioni rapide di mostre, segnalazioni di eventi, interviste agli artisti. Contenuti utili, ma che sostituiscono l’ambizione interpretativa con la funzione di mediazione informativa.
Questo slittamento non è casuale. Risponde a logiche economiche precise: i tempi e i costi della riflessione critica approfondita sono difficilmente sostenibili nell’economia digitale dell’attenzione. La critica come interpretazione complessa fatica a competere con forme di contenuto più immediate e consumabili. Il risultato è una progressiva marginalizzazione del pensiero critico come elaborazione teorica a favore di forme più funzionali ma intellettualmente meno ambiziose.
Parallelamente, emerge una critica di tipo promozionale, sempre più vicina alle logiche del marketing culturale. Testi che presentano artisti, mostre, progetti secondo modalità che rendono difficile distinguere la valutazione critica dalla promozione. Questa contiguità non è necessariamente frutto di malafede, ma riflette una condizione strutturale: molti critici oggi lavorano anche come curatori, consulenti, comunicatori. I confini tra ruoli diversi si sono fatti porosi, con conseguenze sulla possibilità stessa di un discorso critico autonomo.
L’interpretazione diffusa e i suoi limiti
La retorica della “democratizzazione della critica” celebra l’emergere di voci plurali, la fine del monopolio interpretativo, la possibilità per pubblici diversi di articolare i propri giudizi sull’arte. C’è del vero in questa lettura: il discorso sull’arte si è effettivamente pluralizzato, incorporando prospettive prima escluse o marginalizzate.
Tuttavia, questa democratizzazione porta con sé anche problemi meno evidenti. L’interpretazione diffusa tende a privilegiare reazioni immediate su elaborazioni complesse, identificazioni emotive su distanziamento critico, conferme di appartenenza identitaria su messa in questione dei presupposti. Non perché il pubblico allargato sia incapace di pensiero complesso, ma perché le piattaforme digitali che mediano questa interpretazione diffusa sono strutturate per favorire forme di engagement rapido e polarizzato.
Inoltre, l’apparente orizzontalità dell’interpretazione diffusa nasconde nuove forme di concentrazione del potere interpretativo. Gli algoritmi che determinano la visibilità dei contenuti, le piattaforme che controllano l’accesso al pubblico, gli influencer culturali che aggregano comunità di follower: tutti elementi che costituiscono nuove gerarchie, meno visibili ma non meno efficaci di quelle tradizionali nel determinare quali discorsi circolano e quali vengono marginalizzati.
Il problema irrisolto della legittimazione
La questione centrale che attraversa questa trasformazione è quella della legittimazione culturale. In un sistema dove il giudizio critico si è frammentato in una pluralità di arene discorsive con criteri diversi, come si stabilisce il valore artistico? Chi ha l’autorità di discriminare tra ricerca significativa e produzione irrilevante?
La risposta tradizionale faceva riferimento a istituzioni riconosciute: accademie, musei, riviste specializzate, critici affermati. Queste istituzioni non hanno perso completamente la loro funzione, ma il loro potere di legittimazione si è relativizzato. Un artista può oggi costruire una carriera significativa bypassando completamente questi canali tradizionali, raggiungendo pubblico e mercato attraverso percorsi alternativi.
Questo ha generato una situazione paradossale: da un lato, una moltiplicazione delle forme di riconoscimento e successo; dall’altro, una crescente incertezza sui criteri che dovrebbero orientare il giudizio. Il rischio è che, in assenza di riferimenti condivisi, la legittimazione si riduca a metriche quantitative facilmente manipolabili o a logiche di appartenenza comunitaria che escludono il confronto critico genuino.
Possibili direzioni di riconfigurazione per il critico d’arte
La critica contemporanea si trova quindi di fronte a una necessità di ridefinizione che non può limitarsi ad adattamenti superficiali. Alcune possibili direzioni emergono dall’osservazione delle pratiche più interessanti:
Una critica che accetti la perdita del monopolio interpretativo ma rivendichi la specificità di uno sguardo formato, capace di articolare connessioni complesse, genealogie culturali, letture che vadano oltre l’impressione immediata. Non più gatekeeping, ma elaborazione teorica messa a disposizione di un pubblico che può accettarla, contestarla, integrarla con altre prospettive.
Una critica che riconosca la propria parzialità e situatezza, rinunciando alla pretesa di universalità ma senza cadere nel relativismo assoluto. Che sia capace di argomentare le proprie posizioni senza nascondersi dietro un’autorità istituzionale che non può più dare per scontata.
Una critica che sappia utilizzare i nuovi canali digitali senza esserne completamente determinata, che trovi forme di scrittura adatte ai nuovi contesti ma che non rinunci alla complessità per inseguire l’engagement. Che accetti la sfida della comunicabilità senza ridursi a intrattenimento culturale.
Una critica che mantenga una distanza critica rispetto alle logiche di mercato e promozione, anche quando questo comporta marginalizzazione economica. Che sia disposta a distinguere chiaramente tra funzioni diverse: la curatela, la consulenza, la promozione sono attività legittime, ma non vanno confuse con l’esercizio del giudizio critico autonomo.
QUI, IL NOSTRO FOCUS: La comunicazione come necessità strutturale per l’artista contemporaneo
La persistenza di una necessità
Al di là delle trasformazioni in corso, persiste una necessità strutturale di mediazione critica. L’arte contemporanea, nella sua complessità e nel suo rapporto problematico con le tradizioni, richiede strumenti interpretativi che non sono immediatamente disponibili al pubblico allargato. Non per snobismo o per difesa di privilegi corporativi, ma perché la comprensione profonda di pratiche artistiche complesse richiede formazione, tempo, immersione in genealogie culturali specifiche.
La questione non è se la critica sia morta o viva, ma quali forme possa assumere per continuare a svolgere questa funzione ermeneutica essenziale in un contesto profondamente trasformato. Una critica che sappia essere insieme rigorosa e accessibile, autorevole senza essere autoritaria, situata senza essere relativista, impegnata senza essere partigiana.
Questa riconfigurazione non avverrà attraverso proclami programmatici, ma attraverso la pratica concreta di forme di scrittura e pensiero critico che sappiano rispondere alle sfide del presente. Il futuro della critica, se c’è, passa attraverso la capacità di dimostrare la propria necessità non per posizione istituzionale, ma per qualità dell’elaborazione teorica e utilità effettiva nella comprensione dell’arte contemporanea.
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