L’arte nel cinema: Quando i capolavori diventano protagonisti – PARTE 1
C’è un miracolo che accade quando l’arte incontra il cinema, quando secoli di genio creativo si fondono con la magia della settima arte per creare qualcosa di completamente nuovo. Il cinema ha sempre avuto una relazione d’amore con l’arte. Non si limita a mostrarla: la trasforma in personaggio, in simbolo, in chiave narrativa. Dietro ogni inquadratura che immortala un capolavoro c’è una scelta precisa, un significato nascosto, una storia dentro la storia. In questo speciale, vi mostriamo 10 opere apparse in 10 film dove ognuna di queste ha un ruolo concreto, reale, all’interno dell’economia del film. Dividiamo questo viaggio in due parti e cominciamo dal caso forse più conosciuto: la Gioconda presente nel Codice da Vinci.
Quando l’arte diventa cinema
1. “La Gioconda” di Leonardo da Vinci in “The Da Vinci Code” (2006)
Immaginate di trovarvi nel Louvre, davanti al vetro blindato che protegge il sorriso più famoso della storia. Ma questa volta, quel sorriso nasconde segreti che Leonardo stesso aveva celato nei suoi studi anatomici e nelle sue ossessioni esoteriche. Ron Howard prende Lisa Gherardini, la donna fiorentina immortalata dal genio vinciano tra il 1503 e il 1519, e la trasforma nella custode di misteri millenari.
La tecnica dello sfumato leonardesco, quella delicata gradazione di luci e ombre che rende il volto della Gioconda così etereamente reale, diventa nel film una metafora perfetta dell’ambiguità. Come i contorni sfumati del dipinto rendono impossibile definire dove finisce un colore e inizia l’altro, così la verità nel thriller di Howard si nasconde tra le pieghe della storia ufficiale e quella segreta. Ogni dettaglio del quadro – dalle mani elegantemente posate, al paesaggio roccioso sullo sfondo che ricorda gli studi geologici di Leonardo – viene riletto come una mappa crittografata.
La scena in cui Robert Langdon osserva il dipinto al Louvre è un momento di pura tensione contemplativa: la macchina da presa indugia sui dettagli che Leonardo aveva dipinto con pennelli sottili come capelli, mentre la colonna sonora di Hans Zimmer trasforma la quiete museale in suspense palpabile. Il film trasforma la Gioconda da icona artistica a personaggio attivo della narrazione, facendoci scoprire che dietro quegli occhi che ci seguono da cinque secoli si nascondevano davvero dei segreti – non quelli immaginati da Dan Brown, ma quelli di un genio che aveva intuito che l’arte sarebbe sopravvissuta a qualsiasi codice.
2. “Guernica” di Pablo Picasso in “The Night Watchman” (2011)
È il 26 aprile 1937. I bombardieri tedeschi della Legione Condor stanno per radere al suolo Guernica, il piccolo centro basco che in tre ore e mezzo diventerà il simbolo universale dell’orrore della guerra. Pablo Picasso, a Parigi, non sa ancora che quella tragedia gli ispirerà il quadro più potente del Novecento, un grido disperato dipinto in bianco e nero come le pagine di giornale che raccontavano l’orrore.

Nel film “The Night Watchman”, il capolavoro di Picasso – con i suoi 3,49 metri per 7,77 metri di tela – diventa molto più di una semplice opera d’arte esposta al Museo Reina Sofía di Madrid. Il regista lo usa come un testimone mudo ma eloquentissimo, un narratore silenzioso che parla attraverso i frammenti cubisti di corpi smembrati, di cavalli agonizzanti, di madri che stringono bambini morti.
La scena più potente del film è quando la macchina da presa indugia lentamente sui dettagli dell’opera: l’occhio centrale che tutto vede, la lampadina spietata che illumina l’orrore, il toro simbolo della Spagna ferita. Ogni pennellata di Picasso racconta una storia diversa, ogni frammento geometrico è un urlo che attraversa i decenni. Il regista non ha bisogno di parole: lascia che sia l’arte stessa a parlare, trasformando la visione del quadro in un’esperienza fisica, viscerale.
Quello che rende geniale l’uso di Guernica nel film è come venga mostrato non come reliquia del passato, ma come profezia sempre attuale. I volti deformati dal terrore dipinti da Picasso nel 1937 risuonano con ogni conflitto contemporaneo, ogni genocidio, ogni tragedia che l’umanità continua a infliggersi. Il cubismo, che spezza e ricompone la realtà, diventa la lingua perfetta per raccontare come la guerra spezzi e ricomponga – in modo sempre più drammatico – la vita degli innocenti.
3. “La nascita di Venere” di Botticelli in “The Adventures of Baron Munchausen” (1988)
C’è un momento magico in cui l’arte smette di essere ferma e inizia a respirare. Sandro Botticelli lo sapeva bene quando, tra il 1482 e il 1485, dipinse la sua Venere emergere dalle acque dell’Egeo su una conchiglia dorata, i capelli al vento come onde liquide, il corpo avvolto in quella nudità divina che aveva fatto scandalo nella Firenze dei Medici.
Terry Gilliam, il visionario regista ex-Monty Python, prende la dea dell’amore più famosa del Rinascimento e la fa letteralmente emergere dalle onde del suo film surreale. Non è più tempera su tela, ma carne e sogno che si materializzano sullo schermo. L’operazione è di una audacia straordinaria: trasformare uno dei capolavori più celebrati dell’arte occidentale in sequenza cinematografica, mantenendo intatta la poesia dell’originale.
La scena è costruita come un’apparizione: proprio come nel quadro originale, dove Venere appare improvvisa sulla riva, spinta dai venti Zefiro e Aura, nel film la dea emerge dall’acqua con la stessa grazia eterea che Botticelli aveva catturato con i suoi pennelli intrisi di lapislazzuli e oro. Gilliam mantiene persino la composizione originale: i capelli che fluttuano seguendo linee sinuose, la mano che pudicamente copre il seno, l’espressione malinconica e al tempo stesso beata.
Ma quello che rende geniale l’omaggio di Gilliam è la comprensione profonda del significato dell’opera: Botticelli non aveva dipinto solo una dea, ma l’incarnazione dell’Amore Sacro, la bellezza che eleva l’anima umana verso il divino. Nel film, questa dimensione mistica viene esaltata dalla fotografia onirica e dalla colonna sonora, che trasforma l’apparizione di Venere in un momento di pura trascendenza visiva. È come se il Quattrocento fiorentino si risvegliasse dal sonno dei secoli per danzare ancora una volta davanti ai nostri occhi, ricordandoci che la bellezza, quella vera, è sempre contemporanea.
4. “L’urlo” di Edvard Munch in “Scream” (1996)
C’è una sera del 1893 in cui Edvard Munch passeggia per i fiordi di Oslo. Il cielo si tinge di rosso sangue, l’aria si fa densa, e all’improvviso l’artista norvegese sente “un urlo che attraversava la natura”. Non è un suono che arriva dall’esterno: è l’eco della propria angoscia esistenziale che si materializza in una visione allucinata. Nasce così quello che diventerà “Skrik” – L’urlo – forse l’immagine più riconoscibile dell’arte moderna dopo la Gioconda.
Wes Craven, il maestro dell’horror contemporaneo, comprende immediatamente la potenza di quell’urlo silenzioso. Nel 1996, quando crea la sua opera più celebrata, non si limita a citare Munch: lo cannibalizza, lo trasforma, lo resuscita sotto forma di maschera assassina. Il volto emaciato e deformato dall’orrore del dipinto originale – quelle occhiaie profonde come abissi, quella bocca spalancata in un grido muto, quelle mani che si stringono le tempie – diventa il Ghostface che ha terrorizzato un’intera generazione.

Ma la genialità di Craven non sta solo nella citazione visiva. Come Munch aveva usato colori acidi e pennellate nervose per tradurre in pittura la nevrosi fin de siècle, così il regista americano usa la maschera per incarnare l’ansia della società contemporanea. L’urlo di Munch era nato dalla paura della modernità, dall’alienazione dell’uomo urbano: l’urlo di Scream nasce dalla paura dei media, della violenza spettacolarizzata, del voyeurismo televisivo.
Ogni volta che Ghostface appare sullo schermo con quella maschera bianca e nera, porta con sé un secolo di angoscia artistica. Le vittime del film non stanno solo scappando da un serial killer: stanno fuggendo dall’orrore esistenziale che Munch aveva intuito guardando quel tramonto rosso sangue sui fiordi. Il cinema horror diventa così l’erede naturale dell’espressionismo: entrambi cercano di dare forma visibile ai mostri invisibili della psiche umana, trasformando la paura interiore in immagine pura, indimenticabile, universale.
QUI, IL NOSTRO FOCUS SUL MONDO DEL LAVORO NEL CINEMA
5. “American Gothic” di Grant Wood in “The Rocky Horror Picture Show” (1975)
L’America di Grant Wood è fatta di campi di grano che si perdono all’orizzonte, di case di legno bianche come lenzuola stese al sole, di domeniche in chiesa e cene in famiglia. Nel 1930, quando dipinge “American Gothic”, l’artista dell’Iowa vuole celebrare i valori tradizionali del Midwest: la semplicità, la dignità del lavoro, la fede incrollabile. Il contadino con il forcone e sua figlia – o forse moglie, il mistero non è mai stato chiarito – diventano l’incarnazione di un’America austera, pudica, immutabile.
Ma cosa succede quando quell’America così severa e composta incontra la trasgressione più sfrenata del cinema? Jim Sharman lo scopre nel 1975, quando decide di omaggiare Wood in una delle scene più iconiche di “The Rocky Horror Picture Show”. È un momento di puro genio cinematografico: i protagonisti del film, travestiti e truccati in modo eccentrico, si posizionano esattamente come i due personaggi del quadro originale, ricreando la stessa composizione, la stessa posa, lo stesso sguardo fisso verso lo spettatore.

Ma tutto è ribaltato. Dove Wood aveva dipinto austerità, Sharman mette provocazione. Dove l’originale predicava conformità, il film esplode in libertà sessuale e identità fluide. La casa gotica sullo sfondo – quella vera casa di Eldon, Iowa, che Wood aveva usato come modello – rimane la stessa, ma i suoi abitanti sono cambiati radicalmente. Il forcone del contadino diventa un simbolo fallico, l’abito austero della donna si trasforma in corsetto e calze a rete.
È una operazione di detournement perfetta: il cinema prende l’icona dell’America conservatrice e la travolge con un uragano di diversità, di accettazione, di gioia dionisiaca. La scena dura pochi secondi, ma ha la forza di un manifesto culturale. Due visioni dell’America si confrontano nella stessa inquadratura: quella che era e quella che potrebbe essere, quella che si nasconde dietro le tende di pizzo e quella che danza sui tacchi a spillo.
Il risultato è una delle citazioni artistiche più potenti della storia del cinema: Grant Wood probabilmente si rivolterebbe nella tomba, ma il suo quadro non è mai stato così vivo, così contemporaneo, così capace di far riflettere su quanto sia sottile il confine tra repressione e liberazione, tra maschera sociale e autenticità personale.
QUI, TROVI LA NOSTRA SEZIONE DEDICATA ALLE GUIDE TURISTICHE D’ITALIA
QUI, LA NOSTRA PAGINA SULLE 10 CITTÀ D’ARTE PIÙ IMPORTANTI D’ITALIA
SOSTIENI GRATUITAMENTE IL PROGETTO DI ITALIAN ART JOURNAL SEGUENDOCI SU FACEBOOK E SU INSTAGRAM
PER VEDERE LE NOSTRE PRODUZIONI MEDIA SEGUI ANCHE ARTING AROUND SU FACEBOOK, INSTAGRAM E TIKTOK.
PER TE È GRATIS, PER NOI È ESTREMAMENTE IMPORTANTE! GRAZIE MILLE!